National Geographic

2022-03-03 03:49:47 By : Mr. lucky Ren

Jessica Chastain nel ruolo della telepredicatrice che divenne icona LGBTQ+ nel film Gli occhi di Tammy Faye. (The Walt Disney Company è azionista di maggioranza di National Geographic e Searchlight Pictures.) 

Pieters ha parlato con Simon Ingram al telefono da Los Angeles. L’intervista è stata adattata in termini di chiarezza e lunghezza.

Nell’ottobre del 1985, la controversa telepredicatrice Tammy Faye Bakker invitò Steve Pieters, un giovane pastore gay malato di AIDS che poche settimane prima era stato vicino alla morte, nel suo programma televisivo Tammy’s House Party per un’intervista in diretta.

La presentatrice era nota per un approccio tradizionalista che condivideva con il suo marito di allora Jim Bakker, e l’evidente compassione che mostrò in quell’occasione per l’orientamento sessuale, la fede e la malattia di Pieters di fronte a milioni di telespettatori fu vista da molti come una forma di distacco dagli amici cristiani conservatori – e da una popolazione alle prese con lo stigma e la paura per una malattia ancora poco conosciuta. Per altri invece, tra cui la comunità LGBTQ+ e i malati di AIDS, quell’intervista fu una pietra miliare nel percorso dell’accettazione e del riconoscimento.

Tammy Faye successivamente si risposò, e morì di cancro nel 2007. Per Steve Pieters, nel 2022 ricorre il 40° anniversario da quando gli fu diagnosticata l’AIDS. La sua intervista dell'epoca è raccontata (in versione romanzata) nel nuovo film Gli occhi di Tammy Faye; qui Pieters racconta di quello che era il contesto del tempo e quali furono le conseguenze di quell’incontro così determinante con Tammy Faye.

Sono cresciuto vergognandomi profondamente per la mia omosessualità. Da adolescente mi mettevo dei righelli nelle maniche per cercare di non muovere troppo i polsi. Vengo da una famiglia molto religiosa, non conservatrice, anzi, piuttosto liberale, ma in ogni caso non vedevo nessun aspetto positivo nell’omosessualità. Quanto meno negli anni ’50 e ’60, quando ero un ragazzo, non c’era nessun aspetto positivo nell’essere gay.

Dopo il college, per un anno circa mi sono rifugiato nell’alcol. Quando mi sono disintossicato, ho capito – all’età di 23 anni – che se volevo rimanere lucido era necessario che fossi onesto sulla mia omosessualità. Così l’ho portata violentemente alla luce del sole: sono diventato un attivista gay e ho deciso anche di entrare in seminario e studiare per il sacerdozio alla Metropolitan Community Church (MCC), la chiesa che si rivolge alla comunità LGBTQ+.

L’esperienza che ho fatto nel seminario presbiteriano a Chicago è stata molto interessante per me: ho trovato una comunità LGBTQ+ presso la MCC della città, e mi sono subito integrato, mi sono subito sentito a mio agio. Praticamente tutto il corpo insegnante aveva un atteggiamento di supporto nei miei confronti, in quanto giovane uomo che studiava per il sacerdozio nella comunità gay, ma molti studenti erano fortemente omofobi. Mi provocavano per discutere con me sui cosiddetti clobber passages della Bibbia (con “clobber passages” si indicano i passaggi della Bibbia che sono stati generalmente utilizzati per condannare l’omosessualità N.d.T.), o sull’etica o la moralità dell’essere gay. È stata un’importante palestra per me, per farmi le ossa e imparare come affrontare quelle argomentazioni.

Sono stato il pastore della MCC di Hartford, in Connecticut, dove c’erano dei violenti gruppi anti-gay. Sono stato in TV a discutere con sacerdoti o pastori omofobi che poi vedevo frequentare i bar gay di Hartford. E ho imparato come gestirmi nei confronti dei media in merito alle tematiche legate all’omosessualità.

Gli anni ’70 sono stati un periodo di fermento per i gay in America. Harvey Milk era all’apice del suo attivismo, e molte persone rispondevano al suo appello di dare un volto alla realtà LGBTQ+.

Poi sono arrivati gli anni ‘80. Avevo letto le prime relazioni di questo nuovo “cancro dei gay” o “polmonite dei gay”, come veniva chiamato al tempo. Presto divenne nota come GRID (Gay Related Immuno Deficiency, immunodeficienza correlata all’omosessualità). Quando ho cominciato a manifestare i primi sintomi, mi sono spaventato, ero terrorizzato di ricevere quella diagnosi.

Ed ero piuttosto certo che l’avrei ricevuta, quella diagnosi. Sono stato molto male per tutto il 1982 e il 1983, ho avuto epatite, CMV, mononucleosi, faringite streptococcica, herpes, fuoco di san’Antonio, gravi micosi e problemi cutanei. È stato un periodo terribile, e c’era una grande paura verso gli uomini gay malati di AIDS, nome con il quale presto divenne nota la malattia.

Nell’aprile del 1984 mi furono diagnosticati due tipi di tumore in fase terminale: un linfoma al quarto stadio e il sarcoma di Kaposi. Un’infermiera che aveva letto la mia cartella clinica mi disse che avevo otto mesi di vita, mi disse che non sarei arrivato all’anno successivo.

Le mie condizioni di salute mi portarono un profondo scoramento. Ero costretto in casa. I malati di AIDS erano fortemente stigmatizzati. La gente aveva paura a stare nella stessa stanza con me, a respirare la stessa aria. Di avere un contatto fisico non se ne parlava proprio. Quindi divenni presto molto solo.

Sapevo da molto prima che dare un volto alla malattia contribuiva a diminuire la paura che provocava, così iniziai a fare interviste su ciò che significava avere l’AIDS. All’inizio del 1984 c’era così tanta paura per la malattia che non ero ammesso negli studi televisivi in cui si svolgevano i dibattiti, e le troupe non erano disposte a venire presso la struttura dell’AIDS Project a Los Angeles. Volevano comunque coinvolgermi, quindi mi ritrovai a fare le riprese per il programma in un vicolo. Alla fine dell’intervista, quando mi toglievo l’auricolare e il microfono da giacca e li porgevo al tecnico del suono, ricevevo sempre la stessa risposta: “Oh, no, no, no, tienili tu o buttali, fanne quello che vuoi ma noi non li vogliamo”.

Due settimane dopo la diagnosi dei due cancri mi fu chiesto di fare un sermone per Pasqua, nell’aprile del 1984. E grazie alla mia fede, anche se mi aspettava una morte terribile e vivevo una forte stigmatizzazione, mi resi conto che potevo ancora godere della compagnia dei miei amici, potevo ancora ridere, sentirmi vivo; potevo ancora ballare! E feci due passi di tip tap, proprio lì sul pulpito, per dimostrarlo.

Non avevo motivo di credere che sarei sopravvissuto. Nessuno sopravviveva all’AIDS a quei tempi. Ma ho avuto la fortuna di avere un dottore – che è tutt’oggi il mio medico – che mi ha detto: “Se c’è anche solo una possibilità su un milione che tu sopravviva all’AIDS, perché non dovresti credere in quella possibilità, e comportarti di conseguenza?”.

Così, mi impegnai a creare le condizioni per la guarigione. Organizzai un programma di benessere per aumentare le mie probabilità di superare il periodo di tempo previsto per la mia sopravvivenza, e per affrontare al meglio un trattamento medico, non appena fosse stato disponibile. Ciononostante, nel mio profondo albergava la terribile convinzione che sarei morto a breve.

Tammy Faye Bakker (Jessica Chastain) intervista Steve Pieters (Randy Havens) in una scena del film Gli occhi di Tammy Faye. Durante l’intervista, che ebbe una durata di 25 minuti, Bakker chiese a Pieters della sua vita sessuale, della sua malattia e si espresse in un commento accorato, dicendo “com’è triste che noi cristiani... che dovremmo essere in grado di amare il nostro prossimo indistintamente, abbiamo così paura di un malato di AIDS da non riuscire ad abbracciarlo e dirgli che gli siamo vicini e che ci dispiace per lui”.

CONOSCEVO IL PROGRAMMA DI TAMMY FAYE. Quando ero costretto in casa guardavo molto la TV. La mia vicina, nonché la persona che più mi forniva assistenza, era anche lei una persona di chiesa, Lucia Chappelle; guardavamo Jim e Tammy insieme. Ridevamo di gusto delle loro battute e rimanevamo a bocca aperta per la loro teologia conservatrice. Ne eravamo affascinati. Era una trasmissione dalle forti contraddizioni. Anche nel contesto degli anni ’80, Tammy Faye appariva un personaggio quasi caricaturale, e molti ne avevano un’immagine di donna vanitosa, un po’ pazzerella e dal trucco decisamente pesante.

Quindi quando sono stato invitato nella sua trasmissione, ho pensato “Bene, ok. Sono abituato a queste cose. Riuscirò a parlare a un pubblico che non potrei mai raggiungere in altro modo”. Era una meravigliosa opportunità.

Ho chiesto che l’intervista fosse trasmessa in diretta, perché non volevo che avessero la possibilità di tagliarla a loro piacimento. Ho anche posto una condizione: non volevo che lei insistesse sulla mia omosessualità e tentasse di convincermi a convertirmi alla “sua” cristianità e a “salvarmi” diventando eterosessuale. E in effetti non lo fece, non era questo il suo scopo.

Mi mandarono due biglietti aerei di prima classe con destinazione Charlotte, uno per me e uno per la mia accompagnatrice, la Rev. Nancy Radcliffe, che era il  mio cappellano. Mentre stavamo uscendo diretti verso l’aeroporto il loro produttore chiamò e disse “Non venite, Tammy è malata. L’intervista è annullata”. Ci siamo rimasti molto male. Poi, il giorno successivo, il produttore ha richiamato dicendo “L’intervista si farà, Tammy sta meglio, abbiamo deciso di fare il primo collegamento satellitare nella storia di PTL” (PTL era il nome dell’emittente, N.d.T.).

Tammy avrebbe detto in diretta che stavo facendo la chemioterapia, e che l’intervista sarebbe stata in collegamento da Los Angeles perché il viaggio “rischiava di essere troppo pesante per me”. Credo che lo pensasse davvero, forse. Successivamente ho sentito voci sul fatto che temevano che non sarei stato trattato bene, che il personale tecnico non avrebbe lavorato con me nello studio.

Ho parlato con Tammy per circa tre minuti, prima dell’inizio dell’intervista. Lei poteva vedermi, ma io non potevo vedere lei, non avevo monitor, mi arrivava solo la sua voce nell’auricolare. Ci siamo salutati, e lei si è profusa in ringraziamenti per essere stato così coraggioso da aver accettato di apparire nel suo programma. Mi ha assicurato che non sarebbe stata una puntata in cui avremmo parlato di Gesù. Poi però ha iniziato a parlare di Gesù, e io l’ho seguita.

È stata così dolce, e così sincera e compassionevole in quei tre minuti prima dell’intervista, che tutte le mie preoccupazioni sono svanite, e mi sono sentito sicuro del fatto che sarebbe andato tutto bene. E così è stato.

Sapevo che i programmi di Jim e Tammy sull’emittente PTL (Praise the Lord) erano seguiti da decine di milioni di persone. Non sapevo che tipo di impatto avrebbe avuto quell’intervista sul loro pubblico, e non avevo idea di quale sarebbe stato l’impatto sulla comunità LGBTQ+.

Ricordo che subito dopo l’intervista pensai che era andata malissimo, infatti dissi alla mia vicina Lucia: “Sono così contento che nessuno che conosco la vedrà mai”.

Steve Pieters oggi. “Quando nessuno sperava di sopravvivere, io riuscii a riprendermi. Ed è stato un vero miracolo – o, per dirlo con le parole della medicina, un’anomalia”.

Alcuni colleghi mi avevano consigliato di non partecipare alla trasmissione, mi avevano detto che avrebbe distrutto la mia reputazione di predicatore e attivista gay liberale. Ma non fu così, quell’intervista mi ha dato molta visibilità. E credo che abbia aiutato anche Tammy, facendo passare il messaggio che era una persona che non lasciava che uno stigma o un tabù influenzassero negativamente la sua naturale compassione. Ha avuto non pochi problemi a causa di quell’intervista.

Non ci siamo mai incontrati di persona, e ancora oggi mi dispiace che non sia accaduto. Di tanto in tanto ci siamo mandati reciprocamente i saluti tramite un amico in comune, ma niente più che un “Ciao, io sono ancora vivo, tu come stai?”.

Credo che la mia intervista sia stata molto ben rappresentata nel film. Forse io avrei scelto passaggi diversi da riproporre, ma credo comunque che siano stati scelti quelli più giusti. Nel film c’è la citazione esatta di una frase che ho detto: “Gesù mi ama per come sono, Gesù ama il mio modo di amare”.

Riascoltando oggi quelle parole mi accorgo di quanto sia stato un grande passo per le persone malate di AIDS e per l’approccio di tutti nei confronti della malattia. Negli anni ho saputo di tante persone per cui quell’intervista ha significato un cambiamento. Persone che hanno cambiato atteggiamento, convinzioni e fede, cristiani LGBTQ+ che hanno dichiarato apertamente la propria omosessualità, dopo quel confronto. Ha davvero scosso il mondo cristiano conservatore. E al tempo non immaginavo nemmeno lontanamente che avrebbe potuto avere un tale effetto.

Credo che il mio ruolo sia stato infondere coraggio nelle persone. Non avevo idea che sarebbe successo attraverso Tammy Faye. Anche dopo aver fatto l’intervista, non ero per niente convinto che avrebbe avuto alcuna influenza. Invece quel messaggio continua ad avere un impatto, e questo non smette di stupirmi.

SONO GUARITO DALL’AIDS NEL 1987, contro ogni previsione. Quando nessuno sperava di sopravvivere, io riuscii a riprendermi. Ed è stato un vero miracolo – o, per dirlo con le parole della medicina, un’anomalia. Che cosa meravigliosa che sia successo proprio a me, a un malato di AIDS, a una delle tante persone che contraggono una malattia mortale. Se sono riuscito io a guarire dall’AIDS, negli anni in cui non esistevano cure per questa malattia, allora chiunque altro può credere di poter sopravvivere a qualsiasi diagnosi di malattia mortale.

Quando si parla di COVID-19, mi piace dire “Questa non è la mia prima pandemia”. Credo che l’epidemia globale di AIDS abbia molto da insegnarci su questa situazione – non ultimo su come gestire la paura che la pervade. Una volta un grande predicatore americano, William Sloane Coffin, ha detto: “La paura è una reazione naturale. Ma possiamo scegliere come gestirla. Possiamo lasciare che ci spaventi a morte, o che ci spaventi a vita”. Che per me significa fare tutto ciò che è in nostro potere per creare le condizioni per la guarigione del nostro corpo, e per esserci gli uni per gli altri, anche di fronte a qualcosa di orribile come il COVID. 

Cinque o sei mesi fa ho fatto un’intervista per Poz, una rivista che parla della vita delle persone affette da HIV. E ricordo di aver detto al giornalista (anche lui gay) che mi sgomenta l’idea che il mio necrologio probabilmente sarà “Morto, finalmente, il pastore gay con l’AIDS intervistato da Tammy Faye” e lui ha risposto: “Questo è l’atteggiamento sbagliato, dovresti essere orgoglioso che sarai ricordato per questo”. Mi ha fatto pensare. E oggi ti dico che in effetti non è poi male come eredità da lasciare.